sabato 29 ottobre 2011
LUDOVICO EINAUDI
Ludovico Einaudi
10/2/2005
Nella suggestiva atmosfera de 'I Sette Palazzi Celesti' di Anselm Kiefer, Ludovico Einaudi ha tenuto uno speciale concerto per piano solo.
"Nel corso della mia attività concertistica, mi è capitato di suonare in alcuni spazi che emananavano un’energia speciale, in alcuni casi il luogo sprigionava una tale forza che mi ha spinto a modificare radicalmente il concerto, a creare qualcosa che vibrasse insieme allo spazio. Così è stato il 10 febbraio del 2005 quando suonai all'Hangar della Bicocca attorniato da “I Sette Palazzi Celesti” di Anselm Kiefer. Due giorni prima del concerto feci le prove, era come suonare dentro un'immensa cattedrale, il suono viaggiava verso l'alto, non finiva mai, le “sette torri” evocavano una potenza misteriosa con cui non si poteva non dialogare. Decisi di fare qualcosa di completamente diverso da quello che avevo pensato, avevo solo un giorno a disposizione per prepararmi, e buttai giù una serie di schizzi, decidendo che mi sarei lanciato a improvvisare intorno alle nuove idee che avevo raccolto. Il concerto fu per me memorabile, anche perchè l‘Hangar non era scaldato ed era febbraio. Il pubblico era avvolto da coperte, l'atmosfera irreale. Conservo gelosamente la registrazione di quella serata, da cui sono nati alcuni brani che ho poi elaborato nel tempo, l'atmosfera del mio ultimo album "Nightbook" è nata lì.”
ANSELM KIEFER
Anselm Kiefer
I Sette Palazzi Celesti
A cura di Lia Rumma
L'HangarBicocca ha aperto le sue porte al pubblico per la prima volta a settembre 2004 presentando la monumentale opera I Sette Palazzi Celesti che Anselm Kiefer ha realizzato appositamente per lo spazio, scegliendo di occupare l'intero volume della navata più grande all'interno del corpo centrale dell'Hangar.
Ispirandosi alla mistica ebraica della Cabala, il libro della vita, l'artista ha creato sette torri monumentali in cemento armato e piombo, che simboleggiano l'esperienza mistica dell'ascensione attraverso i sette livelli di spiritualità.
Emblemi quindi della condizione umana, le torri di Kiefer sono al contempo architetture reali, abitabili, pur nella loro pericolosa inagibilità, distrutte dal tempo e dall'incuria degli uomini, dimenticate dalla storia. L'artista, per la costruzione dell'opera ha adottato come unità modulare la 'sezione universale' del container per il trasporto merci, simbolo della globalizzazione del paesaggio urbano moderno.
I Sette Palazzi Celesti, opera unica nel suo genere per i materiali utilizzati e per le dimensioni monumentali, è stata acquisita nel 2005 diventando un'installazione permanente.
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Toulouse Lautrec
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giovedì 27 ottobre 2011
ANDREA ZANZOTTO
Corriere della Sera>
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MAURIZIO CATTELAN
ULTURA
27/10/2011 - INTERVISTA
Cattelan appeso al Guggenheim
come un salame
Dal 4 novembre al 22 gennaio il Solomon Guggenheim di New York dedica a Maurizio Cattelan, oggi l’artista italiano più famoso del mondo, la prima retrospettiva che ne ripercorre l’intera carriera. La mostra "Maurizio Cattelan: All", è curata da Nancy Spector, vicedirettore del museo newyorchese
Parla la curatrice della mostra-evento newyorchese con le opere che scendono dalla rotonda del museo
FRANCESCO BONAMI
NEW YORK
C’ è una nuova espressione latina, «Cattelan ad nauseam» che tradotta vuol dire «non ne possiamo più di Cattelan». Era forse dal tempo del matrimonio di Jeff Koons con l’allora onorevole Ilona Staller che un artista non occupava così massicciamente la stampa nazionale e internazionale fino a farci venire la nausea. Allora come antidoto andiamo a sentire la voce non del protagonista ma di Nancy Spector, vicedirettore del Guggenheim Museum di New York e curatrice della «mostra del secolo», l’annunciatissima annunciazione cattelaniana con le opere appese come salami che scendono dalla rotonda del più famoso museo del mondo, costata si dice quasi quattro milioni di dollari, cifra tenuta top secret dal museo come d’altronde tutta la mostra.
Cattelan ha fama di essere sia sciupafemmine sia sciupacuratori. Essendo Nancy Spector entrambe le cose, si potrebbe temere il peggio. Invece questa solo apparentemente dolce signora ha saputo tenere testa al Lucignolo dell’arte contemporanea ed è stata capace, da quando l’ha incontrato la prima volta alla Biennale di Venezia del 1997, di convincerlo dopo lunghe ed estenuanti conversazioni a fare quella che sarà una delle mostre più audaci nella storia del museo. Ma la faccenda non è stata semplice. Per strappare il sì di Cattelan, in quel matrimonio che ogni curatore s’illude essere eterno ma che invece durerà solo quanto all’artista farà comodo, di solito la durata della mostra, la Spector ha dovuto aspettare il 2007, dieci anni dopo il colpo di fulmine iniziale.
La mostra che vedremo non è stata però la prima che Cattelan le ha proposto, vero?
«No ne abbiamo discusse parecchie».
Tipo l’idea di dipingere il museo tutto di rosa, come nel progetto originale di Frank Lloyd Wright: giusto?».
«Sì, o come quella di mettere le opere in giro per Manhattan. Ma nessuna di queste idee mi sembravano convincenti, e nemmeno lui era convinto».
Finché...
«Finché un giorno è arrivato nel mio ufficio con questa specie di collage molto grezzo dove le opere volteggiavano dentro il museo come trasportate da un tornado. Un evento catastrofico. Non ho avuto dubbi. Quella era la mostra».
Come ha fatto a convincere il direttore, Richard Armstrong, e il cda del museo ad accettare un’operazione alla Fitzcarraldo come questa?
«Richard e il cda si sono convinti subito, una volta capito che tecnicamente era possibile fare quello che Maurizio aveva in testa».
Un’operazione incredibile d’ingegneria.
«Incredibile davvero, ma i nostri tecnici - aiutati da quelli che io chiamo “The Zottis”, Lucio e i suoi due figli con cui Maurizio lavora da sempre - sono stati bravissimi».
Affinché la mostra si potesse fare lei aveva messo qualche condizione...
«Avevo detto a Maurizio che tutti i lavori dovevano essere quelli veri e arrivare dai vari collezionisti».
Ci siete riusciti?
«Sì, solo un collezionista non ci ha prestato un’opera».
Ma qualche trucco siete stati costretti ugualmente a farlo, tipo i marmi di All che erano troppo pesanti per essere appesi e sono stati sostituiti da copie più leggere di un altro materiale.«Qualche piccolo compromesso abbiamo dovuto farlo, ma solo poche cose».
È difficile lavorare con un artista come Cattelan?
«Assolutamente no. Molto disponibile. Molto generoso».
Perché secondo lei Cattelan ha preferito fare questo tipo di mostra e non una mostra più classica, cronologica, dove i lavori si potevano vedere meglio?
«Credo che questa mostra rifletta il modo di pensare di Maurizio, la sua complessità. Prima o poi qualcuno farà la mostra cronologica classica. Ma sono d’accordo con lui, questo non era né il momento né il posto giusto».
Come lo definirebbe, in una parola?
«Un pensatore».
È diverso da altri artisti con i quali ha lavorato?
«Ogni artista è un caso a parte. Posso dire però che forse Maurizio è quello che più di altri osserva il mondo costantemente e prova a interpretarlo con il suo lavoro. Non si chiude mai dentro la propria torre di avorio. Si espone ai rischi della realtà forse più di altri».
Come mai certi critici, in particolare a New York, lo odiano?
«Credo ci sia un po’ di moralismo. Il fatto che Maurizio in passato abbia giocatoun po’ con il mercato ad alcuni non è andato giù. C’è a volte ancora questa divisione fra Stato e Chiesa nel mondo dell’arte. Ovvero questa demonizzazione del mercato, delle aste, dei prezzi che corrompono la purezza dell’arte e l’integrità degli artisti. Mi pare un po’ ridicolo».
Nella mostra non ci saranno etichette, nessuna indicazione: come farà la gente a capire e conoscere i lavori?
«Con la mostra di Cattelan lanciamo la nostra prima applicazione per iPad e iPhone. Il pubblico potrà scaricarla e lì ci troverà tutto quello che serve per navigare nel lavoro dell’artista. Compresa l’intervista che gli ha fatto lei, e i commenti dello stesso Maurizio a una selezione di opere».
Quali sono le opere che rimarranno nel tempo?
«Credo che lavori come la Nona ora (Papa Wojtyla colpito da un meteorite) o Him (il piccolo Hitler che prega) siano opere che difficilmente invecchieranno. La Chiesa Cattolica o l’Olocausto non penso passeranno presto nel dimenticatoio».
Le opere, invece, che più risentiranno del tempo che passa?
«La performance con la testa di Picasso, davanti al Moma: quella era un’opera giusta al momento giusto, non so se oggi funzionerebbe altrettanto. Oppure i piccioni al Padiglione Italia del 1997. Anche se allora erano assolutamente il lavoro perfetto per quel contesto, con le perfette opere di Ettore Spaletti sotto».
Cattelan anticipa i tempi?
«Pensiamo al dito di Milano e pensiamo a quello che succede a Wall Street in questi giorni. Direi di sì. Maurizio ha spesso questa capacità di intuire cosa c’è nell’aria con qualche giorno di anticipo».
Crede davvero che questa sia la sua ultima mostra e poi si ritirerà?
«È sicuramente la conclusione di qualcosa. Per questo mi è piaciuto chiudere il catalogo con il lavoro We(noi). I due piccoli autoritratti sdraiati sul letto. L’artista che muore e diventa un altro se stesso rimanendo però identico».
Tutto cambia perché nulla cambi, diceva il Gattopardo.
«Può darsi. C’è qualcosa di antico nella filosofia di Maurizio».
Che effetto fa essere «l’ultima curatrice»?
«Oddio! Mi sembra un po’ troppo drammatico. E poi quello che va in pensione è lui, non io che con due figlie da mandare al college sarò costretta a lavorare per chissà quanto tempo ancora».
C’ è una nuova espressione latina, «Cattelan ad nauseam» che tradotta vuol dire «non ne possiamo più di Cattelan». Era forse dal tempo del matrimonio di Jeff Koons con l’allora onorevole Ilona Staller che un artista non occupava così massicciamente la stampa nazionale e internazionale fino a farci venire la nausea. Allora come antidoto andiamo a sentire la voce non del protagonista ma di Nancy Spector, vicedirettore del Guggenheim Museum di New York e curatrice della «mostra del secolo», l’annunciatissima annunciazione cattelaniana con le opere appese come salami che scendono dalla rotonda del più famoso museo del mondo, costata si dice quasi quattro milioni di dollari, cifra tenuta top secret dal museo come d’altronde tutta la mostra.
Cattelan ha fama di essere sia sciupafemmine sia sciupacuratori. Essendo Nancy Spector entrambe le cose, si potrebbe temere il peggio. Invece questa solo apparentemente dolce signora ha saputo tenere testa al Lucignolo dell’arte contemporanea ed è stata capace, da quando l’ha incontrato la prima volta alla Biennale di Venezia del 1997, di convincerlo dopo lunghe ed estenuanti conversazioni a fare quella che sarà una delle mostre più audaci nella storia del museo. Ma la faccenda non è stata semplice. Per strappare il sì di Cattelan, in quel matrimonio che ogni curatore s’illude essere eterno ma che invece durerà solo quanto all’artista farà comodo, di solito la durata della mostra, la Spector ha dovuto aspettare il 2007, dieci anni dopo il colpo di fulmine iniziale.
La mostra che vedremo non è stata però la prima che Cattelan le ha proposto, vero?
«No ne abbiamo discusse parecchie».
Tipo l’idea di dipingere il museo tutto di rosa, come nel progetto originale di Frank Lloyd Wright: giusto?».
«Sì, o come quella di mettere le opere in giro per Manhattan. Ma nessuna di queste idee mi sembravano convincenti, e nemmeno lui era convinto».
Finché...
«Finché un giorno è arrivato nel mio ufficio con questa specie di collage molto grezzo dove le opere volteggiavano dentro il museo come trasportate da un tornado. Un evento catastrofico. Non ho avuto dubbi. Quella era la mostra».
Come ha fatto a convincere il direttore, Richard Armstrong, e il cda del museo ad accettare un’operazione alla Fitzcarraldo come questa?
«Richard e il cda si sono convinti subito, una volta capito che tecnicamente era possibile fare quello che Maurizio aveva in testa».
Un’operazione incredibile d’ingegneria.
«Incredibile davvero, ma i nostri tecnici - aiutati da quelli che io chiamo “The Zottis”, Lucio e i suoi due figli con cui Maurizio lavora da sempre - sono stati bravissimi».
Affinché la mostra si potesse fare lei aveva messo qualche condizione...
«Avevo detto a Maurizio che tutti i lavori dovevano essere quelli veri e arrivare dai vari collezionisti».
Ci siete riusciti?
«Sì, solo un collezionista non ci ha prestato un’opera».
Ma qualche trucco siete stati costretti ugualmente a farlo, tipo i marmi di All che erano troppo pesanti per essere appesi e sono stati sostituiti da copie più leggere di un altro materiale.«Qualche piccolo compromesso abbiamo dovuto farlo, ma solo poche cose».
È difficile lavorare con un artista come Cattelan?
«Assolutamente no. Molto disponibile. Molto generoso».
Perché secondo lei Cattelan ha preferito fare questo tipo di mostra e non una mostra più classica, cronologica, dove i lavori si potevano vedere meglio?
«Credo che questa mostra rifletta il modo di pensare di Maurizio, la sua complessità. Prima o poi qualcuno farà la mostra cronologica classica. Ma sono d’accordo con lui, questo non era né il momento né il posto giusto».
Come lo definirebbe, in una parola?
«Un pensatore».
È diverso da altri artisti con i quali ha lavorato?
«Ogni artista è un caso a parte. Posso dire però che forse Maurizio è quello che più di altri osserva il mondo costantemente e prova a interpretarlo con il suo lavoro. Non si chiude mai dentro la propria torre di avorio. Si espone ai rischi della realtà forse più di altri».
Come mai certi critici, in particolare a New York, lo odiano?
«Credo ci sia un po’ di moralismo. Il fatto che Maurizio in passato abbia giocatoun po’ con il mercato ad alcuni non è andato giù. C’è a volte ancora questa divisione fra Stato e Chiesa nel mondo dell’arte. Ovvero questa demonizzazione del mercato, delle aste, dei prezzi che corrompono la purezza dell’arte e l’integrità degli artisti. Mi pare un po’ ridicolo».
Nella mostra non ci saranno etichette, nessuna indicazione: come farà la gente a capire e conoscere i lavori?
«Con la mostra di Cattelan lanciamo la nostra prima applicazione per iPad e iPhone. Il pubblico potrà scaricarla e lì ci troverà tutto quello che serve per navigare nel lavoro dell’artista. Compresa l’intervista che gli ha fatto lei, e i commenti dello stesso Maurizio a una selezione di opere».
Quali sono le opere che rimarranno nel tempo?
«Credo che lavori come la Nona ora (Papa Wojtyla colpito da un meteorite) o Him (il piccolo Hitler che prega) siano opere che difficilmente invecchieranno. La Chiesa Cattolica o l’Olocausto non penso passeranno presto nel dimenticatoio».
Le opere, invece, che più risentiranno del tempo che passa?
«La performance con la testa di Picasso, davanti al Moma: quella era un’opera giusta al momento giusto, non so se oggi funzionerebbe altrettanto. Oppure i piccioni al Padiglione Italia del 1997. Anche se allora erano assolutamente il lavoro perfetto per quel contesto, con le perfette opere di Ettore Spaletti sotto».
Cattelan anticipa i tempi?
«Pensiamo al dito di Milano e pensiamo a quello che succede a Wall Street in questi giorni. Direi di sì. Maurizio ha spesso questa capacità di intuire cosa c’è nell’aria con qualche giorno di anticipo».
Crede davvero che questa sia la sua ultima mostra e poi si ritirerà?
«È sicuramente la conclusione di qualcosa. Per questo mi è piaciuto chiudere il catalogo con il lavoro We(noi). I due piccoli autoritratti sdraiati sul letto. L’artista che muore e diventa un altro se stesso rimanendo però identico».
Tutto cambia perché nulla cambi, diceva il Gattopardo.
«Può darsi. C’è qualcosa di antico nella filosofia di Maurizio».
Che effetto fa essere «l’ultima curatrice»?
«Oddio! Mi sembra un po’ troppo drammatico. E poi quello che va in pensione è lui, non io che con due figlie da mandare al college sarò costretta a lavorare per chissà quanto tempo ancora».
GAMEC
SEGNALAZIONI
24/10/2011 -
Una nazione tra Madonne e comizi
Alla Gamec una rassegna
per i 150 anni
ELENA PONTIGGIA
BERGAMO
Ci sono due modi, nel mondo dell’arte, per celebrare male una ricorrenza. Il primo è realizzare tante iniziative più o meno uguali, ovviamente scoordinate, generando un effetto di sazietà, se non di noia. È successo con il futurismo: l’anno di Boccioni e compagni è durato un biennio e alla fine la gente non ne poteva più. Il secondo è realizzare iniziative diversissime (e, si intende, altrettanto scoordinate), dando un’idea di genericità, se non di confusione. Sta accadendo con i 150 anni dell’Unità d’Italia, commemorati con varie mostre che hanno poco in comune non solo fra loro, ma a volte anche con la ricorrenza.
In questo panorama non esaltante la rassegna «Il Belpaese dell’arte» (a cura di Giacinto Di Pietrantonio e Cristina Rodeschini, Bergamo, GAMeC) si distingue piacevolmente per una dimensione di leggerezza, capace di evitare sia la retorica celebrativa, sia l’anticelebrazione ostentata che spesso è più retorica della prima.
Si tratta di duecento opere - tra quadri, sculture, installazioni, disegni, fotografie, oggetti vari - tutte sul tema dell'Italia e di alcuni suoi aspetti come la politica, lo sport, la religione, la memoria dell'antico, il made in Italy. Naturalmente gli argomenti non hanno nessuna velleità di completezza, anche perché, nonostante il computo fiscale delle opere, la mostra non è grandissima. Il percorso espositivo, comunque, diviso in otto sale tematiche, si sviluppa con uno studiato rimescolamento delle carte: il busto neoclassico vicino a un ritratto in bronzo di Manzù, sotto le caricature di Pericoli, davanti ai quadri recenti di Gabriele di Matteo; il flipper di Salvo vicino a ricordi di avvenimenti sportivi, di fianco a un’installazione di Umbaca, e così via.
Diceva Picasso che in arte non esiste passato né futuro, ma tutto è un eterno presente. Senza volerlo la rassegna lo dimostra perché, per esempio, nella sala sui temi religiosi (felicemente priva, sia detto per inciso, di rane e donne crocifisse o altre banalità) la Virgin Mary di Kiki Smith e la Madonna del Miracolo di De Dominicis e Vettor Pisani non stonano vicino alla Madonnina del Piccio e nemmeno accanto a un ex voto senza data. Analogamente, nella sala dedicata ai temi politici, un Comizio comunista di Guttuso non fa a pugni con il Ritrovamento di Aldo Moro, un quadro degli anni Ottanta di Cingolani. Anzi, per così dire, ringiovanisce.
Punto di forza della mostra, del resto, non sono i temi ma le opere, alcune sorprendenti. Così nella sala intitolata scherzosamente Fratelli d’Italia ci sono Savinio e De Chirico o Tano Festa e Franco Angeli, com’era prevedibile, ma anche un Ritmo elegante e misterioso di Paola Levi Montalcini, sorella di Rita e, in campo artistico, non meno scienziata di lei. Così nella sala dedicata all'immagine del Bel Paese c'è un'Italia balla di Fabro, meno nota della sua Italia capovolta, ma forse più drammatica, con quei ferri colorati gettati a terra come cartoni da buttar via.
Non è il dramma, però, la cifra della mostra. Si avverte anzi un tentativo, riflettendo sull’identità della nazione, di uscire «da un atavico pessimismo», come scrive Cristina Rodeschini in catalogo. Non sappiamo se oggi sia possibile, ma certamente ce ne sarebbe bisogno.
IL BELPAESE DELL’ARTE
ETICHE ED ESTETICHE DELLA NAZIONE
BERGAMO, GAMEC
FINO AL 19 FEBBRAIO 2012
In questo panorama non esaltante la rassegna «Il Belpaese dell’arte» (a cura di Giacinto Di Pietrantonio e Cristina Rodeschini, Bergamo, GAMeC) si distingue piacevolmente per una dimensione di leggerezza, capace di evitare sia la retorica celebrativa, sia l’anticelebrazione ostentata che spesso è più retorica della prima.
Si tratta di duecento opere - tra quadri, sculture, installazioni, disegni, fotografie, oggetti vari - tutte sul tema dell'Italia e di alcuni suoi aspetti come la politica, lo sport, la religione, la memoria dell'antico, il made in Italy. Naturalmente gli argomenti non hanno nessuna velleità di completezza, anche perché, nonostante il computo fiscale delle opere, la mostra non è grandissima. Il percorso espositivo, comunque, diviso in otto sale tematiche, si sviluppa con uno studiato rimescolamento delle carte: il busto neoclassico vicino a un ritratto in bronzo di Manzù, sotto le caricature di Pericoli, davanti ai quadri recenti di Gabriele di Matteo; il flipper di Salvo vicino a ricordi di avvenimenti sportivi, di fianco a un’installazione di Umbaca, e così via.
Diceva Picasso che in arte non esiste passato né futuro, ma tutto è un eterno presente. Senza volerlo la rassegna lo dimostra perché, per esempio, nella sala sui temi religiosi (felicemente priva, sia detto per inciso, di rane e donne crocifisse o altre banalità) la Virgin Mary di Kiki Smith e la Madonna del Miracolo di De Dominicis e Vettor Pisani non stonano vicino alla Madonnina del Piccio e nemmeno accanto a un ex voto senza data. Analogamente, nella sala dedicata ai temi politici, un Comizio comunista di Guttuso non fa a pugni con il Ritrovamento di Aldo Moro, un quadro degli anni Ottanta di Cingolani. Anzi, per così dire, ringiovanisce.
Punto di forza della mostra, del resto, non sono i temi ma le opere, alcune sorprendenti. Così nella sala intitolata scherzosamente Fratelli d’Italia ci sono Savinio e De Chirico o Tano Festa e Franco Angeli, com’era prevedibile, ma anche un Ritmo elegante e misterioso di Paola Levi Montalcini, sorella di Rita e, in campo artistico, non meno scienziata di lei. Così nella sala dedicata all'immagine del Bel Paese c'è un'Italia balla di Fabro, meno nota della sua Italia capovolta, ma forse più drammatica, con quei ferri colorati gettati a terra come cartoni da buttar via.
Non è il dramma, però, la cifra della mostra. Si avverte anzi un tentativo, riflettendo sull’identità della nazione, di uscire «da un atavico pessimismo», come scrive Cristina Rodeschini in catalogo. Non sappiamo se oggi sia possibile, ma certamente ce ne sarebbe bisogno.
IL BELPAESE DELL’ARTE
ETICHE ED ESTETICHE DELLA NAZIONE
BERGAMO, GAMEC
FINO AL 19 FEBBRAIO 2012
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